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Luciano Tomagè, critico d'arte

Ecologie di forme

Mi sembra che la proposizione d’immagine che risulta dal lavoro in ceramica quasi ventennale di Tino Sartori, si configuri in termini di emblematicità di forme. Dalla configurazione orizzontale, che implica l’apertura visiva del paesaggio, a quella verticale , che richiama alla memoria forme totemiche, tale proposizione d’immagine evidenzia la qualità di un segno emblematico, cioè di “inserto” iconico rappresentativo nella misura della propria ostensione simbolica, ed espressivo – aggiungiamo- nell’ambito di una poetica sostanzialmente ecologica. Non dunque simboli di matrice psichica o spiritualista, metafisico-religiosa, bensì di chiaro riscontro antropologico, che aiutano a leggere i valori della storia dell’uomo la dove il sedimento della cultura etnica li ha fatti crescere e tesaurizzare. Perciò le icone di questo mondo immaginativo (non privo di un certo fascino esotico) appaiono necessariamente legati ad un contesto spaziale che li accoglie come tali, come inserti emblematici appunto, su uno sfondo cromatico (o meno), entro cui si stagliano plasticamente, quali figure significative per sé. Cioè significative in quanto , insieme, forme di vita naturale (alberi, uccelli, pesci ecc.) e culturale (case, libri, vasi ecc.), in grado di parlare da sole, nella sospensione silenziosa della loro presenza.

Il valore emblematico delle icone etnico-antropologiche risulta infatti connesso a quello spaziale, nella dimensione planare del rilievo (o nel tuttotondo della coroplastica), risolto in chiave direi di istintivo sintetismo , forse di ascendenza neocubista; “istintivo” nella scelta immediatamente funzionale alla configurazione d’immagine cercata (e talora calligraficamente ricercata), non tanto allora come effettivo richiamo storico di poetica.

Vero è comunque che per passare “dalla terra alla forma”, occorre il talento apollineo della chiarezza razionale e della distinzione formale, e sono sicuro che la personale vocazione dell’artista all’equilibrio delle forze visive, alla generale armonia e proporzione compositive, l’abbia spinto in quei territori della cultura e della storia dell’arte più prossimi al suo modo di esprimersi e più vicini alla sua sensibilità (e dunque anche ai grandi maestri dell’astrattismo storico d’avanguardia). Così come del resto credo che il titolo scelto dall’artista per questa mostra sia in grado di suggerire letteralmente allo spettatore il percorso di transformazione della terra. Dalla informità della materia alla forma artistica attraverso un medium legato intrinsecamente alla terra: una terra umida, asciugata all’aria e cotta col fuoco, in un processo artigianale ( o alchemico?) scandito dai tempi della natura nell’ambiente di vita dell’uomo.

Ed ecco perché mi pare che il discorso di Sartori, attraverso la manualità dei gesti, sia in grado di costituirsi essenzialmente come discorso ecologico in senso pieno. Cioè etimologicamente come un discorso sulla qualità dell’ambiente , in quanto origine e scopo (conservativo) di vita umana. Voglio dire che attraverso la sua storia e la sua identità personale nonché la geografia dei suoi tanti viaggi (conosco Tino come “cittadino del mondo”) egli riscrive in un certo senso il proprio mondo di valori umanistici, animato da una fede laica nel progresso dell’uomo, ma in una direzione alternativa alla prospezione tecnicista massmediatica; piuttosto verso la ricerca di tramandi storico-geografici ancora in grado di esibire l’autenticità del vivere.

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